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Gigi Riva

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“Il calcio di oggi mi annoia. È monotono. Si passano la palla da una parte all’altra del campo, aspettando che si apra un varco. Troppo lento. Noi eravamo più rapidi, andavamo presto in verticale, a cercare il gol”.

“Il gol per me era la liberazione, voleva dire passare poi una settimana tranquilla, aver fatto bene il mio lavoro. Era la rabbia che esplodeva. Nel calcio ho trovato quello che la vita non mi aveva dato. Non ho avuto un’infanzia facile. Ho perso mio padre, mia sorella e mia madre. Dimenticavo tutto, per un momento, soltanto quando giocavo a pallone. A Cagliari ho avuto un po’ di serenità, anche grazie ai miei compagni che mi hanno sempre aiutato. E grazie alla Sardegna che ha sempre manifestato grande affetto”.

“Nella vita ero passato da un pianto all’altro. A Cagliari tutto mi sembrava meno doloroso. Per questo ho rifiutato tre trasferimenti al nord”.

“Ricordo l’incontro con il mio mito Fabrizio De André. Dopo esserci salutati siamo stati per quasi un’ora in silenzio. Poi, tra una sigaretta e un whisky, si è sciolto un po’ il ghiaccio. E alla fine lui mi ha regalato la sua chitarra e io la mia maglia”.

“Burgnich è stato il difensore più duro che ho incontrato. Aveva un fisico spaventoso. Io non mi tiravo mai indietro. Eravamo simili”.

“Un giorno mi sono ritrovato in macchina il bandito Graziano Mesina. Voleva che non andassi via, che restassi in Sardegna. Ma io ho sempre deciso da solo”.

“La depressione me la porto addosso, ci sono in qualche modo abbonato. Ci sono cascato dentro quando ho smesso di giocare. Mi schiacciava. Ma ora sto meglio”.

“Il calcio mi ha dato la possibilità di andare quattro volte dal Presidente della Repubblica e di ricevere tante onorificenze. Mi ha dato la fama e la possibilità di fare la vita che sognavo. Sono diventato campione d’Europa e vicecampione del mondo, sono stato capocannoniere del campionato. Ma in fondo si trattava pur sempre di tirare bene quattro calci ad un pallone”.

“Sono orgoglioso di essere stato apprezzato come persona. La parentesi calcistica è stata breve ed effimera. L’altra vita è molto più importante. È quello che ho sempre cercato di spiegare ai miei figli, raccontando loro anche della mia prima vita, quella più dura”.

“Ho perso mio padre quando avevo 9 anni e mia madre a 16 anni. Sembrava che il destino ce l’avesse con me. Quando sono arrivato in Sardegna ero arrabbiatissimo con la vita. Avevo il calcio in testa, il calcio era nei miei sogni”.

“Ricordo i sacrifici di mia madre. Sono stati difficili i primi anni della mia vita. Sono finito in collegio, che mi ha privato della cosa più bella per un ragazzo: la libertà. Il calcio era uno sfogo”.

“Il mio rimpianto è quello di non avere potuto condividere vita e successi con i miei genitori”.

“Le sigarette che mi hanno dato più gusto sono state quelle che ho fumato dopo ogni gol con il Cagliari. Potevo giocare benissimo, ma se non segnavo non ero contento”.

“Il nostro era un calcio giocato da ragazzi figli del dopoguerra. Il nostro calcio non era inquinato dalla televisione. Quello di oggi è un calcio scientifico. Oggi il calcio serve a mascherare i problemi del Paese. Ci sbattono in faccia tutte queste partite come in Sudamerica c’è un carnevale al giorno”.

“La mia grande passione è stato Fabrizio De André. Adoravo la sua musica, i suoi testi. Il centrocampista Ferrero me lo fece incontrare. Lui era un appassionato di pallone e tifoso del Genoa. Io cercavo di farlo parlare delle sue canzoni. Fu un incontro magico”.

“Mi piacciono i silenzi, parlare con me stesso. Il silenzio è stata una parte importante della mia vita. Quand’ero giovane mi sono dovuto arrangiare. Mi sono chiuso, ma non è vero che sono diventato triste o malinconico. Ho dovuto fare i conti con l’infanzia che ho avuto, con i lutti, con le nottate a occhi spalancati aspettando il sonno che non arrivava. Il calcio mi ha aiutato. Quando sono uscito per sempre dal campo, dal sogno che si era avverato e aveva tenuto lontani i fantasmi notturni, ho dovuto cominciare a fare i conti con la depressione. Quando il calcio mi è venuto a mancare di colpo, mi sono sentito perso”.

“Noi calciatori, ai miei tempi, vivevamo di premi-partita, gli ingaggi non erano granché, tutto quello che ci veniva in tasca lo sudavamo sul campo. Non c’erano sponsor”.

“Pelé è stato il più grande di tutti. Metto lui e Maradona sullo stesso piano. Li ho visti da vicino, anche se in epoche diverse. Io e tutti gli altri siamo dietro di loro, staccati rispetto a quei due”.

“Capii subito che somigliavo ai sardi. Sono taciturno e ascolto. La loro fierezza, anche nelle piccole cose, mi ha colpito. Ho percepito un rispetto speciale, che mi ha sempre inorgoglito”.

“Quando presi la Ferrari Dino, di notte mi capitava di fare lunghe passeggiate. Guidare mi scaricava, ritrovavo me stesso”.

“Dino Zoff parava il possibile, Ricky Albertosi anche l’impossibile. Non sentiva le pressioni, era di ghiaccio”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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