Riccardo Cucchi (radiocronista, giornalista, scrittore)

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“Appartengo alla generazione in cui il calcio si vedeva allo stadio. La partita “vera” è quella che vedono gli spettatori sugli spalti. Quella in televisione è una narrazione. Sono stato bambino in un’epoca in cui il calcio non si vedeva, ma si ascoltava e basta”.

“Il giorno in cui mio papà mi portò allo stadio per la prima volta fu un’emozione incredibile. Ricordo il momento in cui, salendo i gradoni dello Stadio Olimpico di Roma, mi è apparso davanti agli occhi il campo verde. Rimasi così colpito che ho continuato a rivivere quell’emozione ogni volta che sono entrato in uno stadio”.

“Ho avuto la fortuna di intervistare moltissimi personaggi: Platini, Maradona, Totti,  Baggio, Del Piero, Gullit. L’elenco è lunghissimo. Mi piace ricordare il dialogo sempre stimolante che si poteva avere con Arrigo Sacchi, Osvaldo Bagnoli protagonista dello storico scudetto del Verona, Diego Armando Maradona personaggio straordinario sul piano calcistico, e per la sua personalità semplice e complessa. José Mourinho è stato un allenatore con cui è stato piacevolissimo confrontarmi per la sua intelligenza e anche per la furbizia con cui era in grado di gestire le domande e indirizzare l’intervista. Ancelotti, ironico, pronto alla battuta, intelligente”.

“Nei 40 anni in cui ho raccontato il calcio ho lasciato da parte i sentimenti più vicini all’anima del tifoso. Adesso che sono fuori dal microfono sono tornato a vivere l’emozione del calcio esattamente come quando ero ragazzo”.

“Nessuno più di un radiocronista è vicino a quella definizione di giornalista che diede Enzo Biagi: “testimone della realtà”. Il radiocronista sa che chi è all’ascolto non ha immagini. Le immagini che possono crearsi nella fantasia di chi non vede la partita appartengono alle capacità di racconto del radiocronista”. 

“Nessuna partita è uguale all’altra e ogni radiocronaca è una storia a sé. In ogni partita c’è la parafrasi della vita. Quello che ancora mi incuriosisce è il lato psicologico: cadere, rialzarsi, reagire, alzare la testa, ripartire. È la vita: questo lavoro è saper trasmettere anche quella”.

“La mia partita del cuore è la finale di Berlino 2006. Dare voce all’ Italia che vince i Mondiali è un privilegio che ho condiviso solo con Carosio e Ameri. È l’unico momento in cui a un radiocronista è concesso lasciarsi trasportare dal tifo. Dopo ero così carico di adrenalina che ho vagato per la città tutta la notte. Non riuscivo a dormire”.

“La mia vita è ruotata intorno alla parola. Quando ascoltavo la radio da ragazzino, quando vi ho lavorato. La parola è la mia vita. Ma è la vita di tutti”.

“L’Italia ha bisogno di crescere in cultura sportiva e imparare la lezione dello sport, che è competizione ma anche rispetto dell’avversario. In campo e sulle tribune. Preferiamo dividerci, nel calcio, nella politica, nella cultura. Anziché fare squadra”.

“Il calcio, fino ai primi anni ’90, era un prodotto radiofonico e da stadio. L’avvento delle piattaforme TV a pagamento ha prodotto una vera rivoluzione, sia di natura economica che narrativa. La pioggia di milioni ha trasformato calciatori in vere e proprie star, con un seguito di manager e di responsabili della comunicazione che ce li hanno resi distanti e spesso non raggiungibili. Si è creata una barriera tra giornalisti e calciatori. Almeno con quelli più popolari e più ricchi. Sono nate le interviste a pagamento, quelle regolamentate dal commercio dei diritti tv”.

 

 

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